Spigolature di letturatura calabrese,i "Gabbulieri" di Aprigliano e Duonnu Pantu.

Tra il XVI e il XVIII secolo nonostante la Calabria vivesse, al tempo del dominio spagnolo, a causa del fiscalismo statale ma anche della repressione dell’inquisizione, la Calabria almeno dal punto di vista culturale visse uno dei suoi periodi migliori. Basta pensare che , propio in questo periodo, i filosofi Tommaso Campanella e Bernardino Telesio, il pittore Mattia Preti e tutta una serie di personaggi “minori”, anche perché poco conosciuti, che diedero lustro alla nostra Regione. Aprigliano, oggi è un Casale della Sila cosentina noto in prevalenza per i propri scalpellini, ma allora era un Borgo in cui vivevano intellettuali di un certo valore. In una sorte di cenacolo letterario si confrontavano Domenico Piro, troviamo Domenico e Ignazio Donato, latinisti e giuristi, nonché gli zii del Piro e anch’essi sacerdoti e Carlo Cosentino cui si deve una delle prime opere in dialetto calabrese: una traduzione nel vernacolo bruzio della “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso. Era questo il sodalizio dei “Gabbulieri” soliti di girovagare nei mercati rinali alla ricerca della parlata più autentica del popolo cosentino. “Duonnu Pantu, al secolo Domenico Piro – osserva Franco Laratta, già parlamentare ma soprattutto giornalista e innamorato della propria terra – nacque ad Aprigliano nel 1664 e morì a soli 35 anni. Uomo colto, appartenente ad una famiglia di notai, sacerdote anticonformista, grazie anche ad una produzione letteraria borderline, è considerato il primo poeta dialettale calabrese e per molti aspetti una figura singolare nel panorama regionale e del Mezzogiorno”. I temi preferiti dalla sua Musa erano quelli dell’amore nel senso più ampio del termine che finì per inquietare la gerarchia ecclesiastica cosentina. “Duonnu Pantu – osserva, invece, Sharo Gambino – non nasconde la sua gioia di vivere in maniera spregiudicata ed addirittura pagana il paradiso dell’amore carnale in tutte le sue variazioni possibili e lo dice senza l’ipocrisia della foglia di fico o i falsi veli di una morale bacchettona”. Erano quelli gli ultimi anni de “Petrarchismo” che anche in Calabria ebbe molti seguaci, ma che ormai era arrivato all'epilogo. "Diciticcellu a tuttu lu munnu, viva lu cazzu, l'u cunnu!" poetava, nonostante si fosse votato alla castità, Domenico Piro mentre nell' alto Jonio Cosentino Galeazzo Da Tarsia pur componendo sonetti in perfetto stile petrarchesco fu processato più volte per le violenze sessuali con cui si sfogava con le donne residenti nella sua baroni. A scrivere di Domenico Piro, alcuni critici letterari come Luigi Gallucci che in una pubblicazione del 1833 prova a fornire una spiegazione al silenzio che aveva avvolto per oltre un secolo la figura del sacerdote che, promosso umanamente e nel suo ministero, pagò soprattutto per i suoi scritti. “E quantunque da suoi scritti – osservava -sembrasse di una condotta depravata, dissoluta e scandalosa, pure tutti concordemente vogliono che fosse stato bene all'opposto di un carattere esemplare per buon costume, continenza e religiosità”. L’anettodica che si riferisce a Pirro Pantu, aggiunge Sharo Gambino “è ricchissima ed è addirittura impossibile, a distanza di tanto tempo stabilire quanto in essa ci sia di vero e quanto di inventato. Si narra per esempio che avendogli il solito arcivescovo imposto l’assunzione di una perpetua di età non inferiore alla cinquantina, egli ne prese due di venticinque anni ciascuna”. “Un’altra volta si travestì da vecchia -aggiunge Gambino – e improvvisando il sonetto “Jisti de Pinnu” mise a tacere un poeta napoletano che godeva di fama di valente improvvisatore. Ed infine, sul letto di morte ed in punto di esalare l’ultimo respiro, sentendo gli amici che lo vegliavano parlare di donne, aprì gli occhi e disse che a quel convito carnale voleva prendere parte anche lui”. Molto probabilmente, affrontare temi ritenuti tabú resi irresistibili da quella carica che veniva dal dialetto e dall’ ilarità, in un periodo in cui il popolo era vessato e stanco dai soprusi potrebbe aver rappresentato per il Sacerdote apriglianese morto a soli 35 anni un rifugiarsi in un “altrove” come qualche anno prima aveva fatto con “La Città del Sole” fra’ Tommaso Campanella nato “a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia”.
Francesco Rizza