Gioachimismo in Ignazio Silone: 'Socialista senza partito' e 'Cristiano senza Chiesa'.

Tracce della spiritualità gioachimita e particolarmente il sogno di una Chiesa che, rinnovandosi, fosse capace di ritornare ai tempi degli Atti degli Apostoli, a nostro parere, ritornano in uno dei massimi Scrittori della Letteratura italiana del Novecento che nel tempo del Concilio Vaticano II ne subirono tutto il fascino e le idealità, particolarmente grazie a quel Papa Angrlicus che, a nostro parere fu San Giovanni XXIII: Ignazio Silone che, per alcuni accadimenti della sua biografia ed un carattere indipendente fino all'ereticità, amava definirsi come un 'Socialista senza partito' e 'Cristiano senza Chiesa'. Eppure, il messaggio di un Cristianesimo popolare ed a difesa delle fasce deboli della popolazione, così come avrebbe dovuto essere quel Comunismo dal quale fu espulso, è fra le corde di molte sue pagine come l'attesa, quasi escatologica, di un'epifania cristiana. Anche da una lettura veloce delle sue opere non si può fare a meno di rendersi conto che un sentire cristiano rappresenta una sorta di filigrana fra le sue opere. "Questo uomo che ha legato il suo nome alla storia e alla polemica politica di quasi cinquant’anni — scrive Amedeo Vigorelli — e questo scrittore che ha scritto i suoi libri parallelamente alle sue esperienze politiche e che deve la sua fama al loro messaggio social-politico, risulta uno scrittore essenzialmente religioso. Quello che pareva un naturalismo è un realismo evangelico, e quello che risultava un populismo è piuttosto un messianismo". All'interno del suo Socialismo realista appare più volte, a nostro parere, quanto meno il sogno di una escatologia nelle storie dei Cafoni che sono i personaggi principali delle sue opere. Come osserva Giuseppe Maruca "alla base delle sue scelte politiche e culturali vi è una sorta di indignazione morale, di rivolta contro l'ordine politico economico e sociale, le ingiustizie e le sofferenze del mondo (...). Ha posto al centro della sua riflessione e della sua opera il desiderio di libertà e di giustizia dell'uomo contemporaneo, nel quadro delle contraddizioni, dei drammi e degli ideali della sua epoca (...). L'esigenza dei contadini viene infatti alimentata da un sentimento di solidarietà e di fraternità, da comuni ideali e progetti di riscatto e di emancipazione politica, economica e sociale". Se Fontamara, che è il romanzo più conosciuto di Silone, risente ardentemente l'influenza di una lettura marxista della storia e dell' utopia comunista, nei suoi personaggi non si può fare a meno di notare un'intensa religiosità come, per è esempio, in Elvira che più volte, subendo momenti truci della propria vita, invoca la Madonna. Nella descrizione di don Abacchio, la descrizione di una Chiesa asservita al potere ed alla tranquillità con uscite alle volte esilaranti, può essere anche letta come il desiderio di un Cristianesimo puro che, ormai, si era perso. Nelle pagine di Silone, infine, ecco trasparire la precedenza 'montiniana' della testimonianza sul resto in un'ampia responsabilità etica. "Se la mia opera letteraria ha un senso - scriveva - in ultima analisi, è proprio in ciò: a un certo punto scrivere ha significato per me assoluta necessità di testimoniare, bisogno inderogabile di liberarmi da un’ossessione, di affermare il senso e i limiti di una dolorosa e definitiva rottura e di una più sincera fedeltà". Nonostante la sua adesione al Partito Comunista dove non fu capito e dal quale è stato allontanato, è ancora il Cristianesimo 'abruzzese' una delle fonti della sua ispirazione e delle sue opere in cui la speranza va di pari passo con una certa malinconia dei suoi Correggionali. In tal senso Fontamara, infine, è un libro matriciale di tutta la sua opera perché "si propone come un crogiuolo di essenze primigenie. C’è tutto: la fonte, intesa come alimento primo delle radici; amara, a indicare l’amarezza dell’alimento delle radici, e dunque della vita; la via della nascita, indicare come non solo la nascita, ma anche il cominciamento della vita (la via) siano pervase dalla forza rovinosa di un’amarezza senza fine; infine, la fonte intesa come ristoro delle bestie, non possibile ai cafoni, razza a sé abitatori, da sempre, fratelli del vento e della pioggia e del sole cocente, nella grotta della miseria, che viene subito dopo quella del nulla". In fondo, Silone non seppe o non volle mai liberarsi dell'idea dell'esistenza di Dio anche se non la identificò con quello cui si riferiva la Chiesa cattolica. A don Orione che ebbe un ruolo fondamentale nella sua vita, in Uscita di Sicurezza, lo Scrittore abruzzese fece dire “Dio non è solo in Chiesa. Nell’avvenire non ti mancheranno momenti di disperazione. Anche se ti crederai solo e abbandonato, non lo sarai. Non dimenticarlo”. Ancora nella stessa pubblicazione, Silone scrive di Pietro Spina uno dei suoi personaggi preferiti in cui, probabilmente s'identidica, che " l’impressione che non cerchi Dio, ma sia da Lui inseguito, come uno può esserlo dalla propria ombra o da qualcosa che porta in sé”.Un romanzo siloniano in cui viene descritto il suo rapporto con la fede ed in cui ci sembrano prendere forma alcuni pensieri di Gioacchino da Fiore è Vino e Pane. Il personaggio principale è don Benedetto De Marulis: uno strano tipo di sacerdote, quasi da 'ultimi giorni'. Ce lo facciamo descrivere direttamente da Silone. A Marta, nome evalgelicamente evocativo, Vescovo, un giorno aveva detto: "suo fratello, riverita signorina, è di una ruvidezza e di un peimitivismo che noi non possiamo sopportare in un professore di collegio nel quale le più ricche famiglie, cioè le migliori famiglie della diocesi mandano i loro figli. Mosignore, questo bisgnava ammetterlo, non era ruvido e primitivo, e sapendo don Benedetto d'umore timido e rassegnato per tutto ciò che concerneva la sua carriera, l'aveva messo alla porta col pretesto della salute malfema. Da allora, don Benedetto aveva vissuto ritirato, insieme alla sorella, nella sua cassetta, Aldi sopra di Rocca dei Marsi, tra i suoi vecchi libri e l'orto. Essendo di natura uomo pacato e taciturno, non c'era voluto molto perché nel suo piccolo ambiente fosse considerato uno scontroso, uno strano, un missantropo, forse anche un sempliciotto. Ma le poche persone alle quali si confidava sapevano che, sotto la sua timidezza contadinesca, egli nascondeva una libertà e vivacità di pensiero temeria per il suo stato. Insomma, era piuttosto compromettente dimostrarsi suo amico. Immaginate, dunque, i parenti, i fratelli, i cugini, le cognate. Valeva la pena sopportare tutti quei sacrifizi per mantenerlo in seminario se poi doveva finire così? I suoi parenti, addirittura lo odiavano per non avere avuto presso le autorità l'assistenza e protezione che egli, prete, se non si fosse ridotto a vivere come un eremita, sarebbe stato in grado di dare, in una epoca in cui, senza appoggi e raccomandazioni, lavorare onestamente in pratica non serviva a nulla. L'ultimo incontro fra parenti, presso il notaio di Fossa, si era concluso, per causa di ciò, in una scena assai penosa. "Disgraziato" a un certo punto aveva gridato a don Benedetto una vecchia zia. "Sai perché sopporta mo tanti infiniti sacrifizi per avere un prete in famiglia?". "Esattamente lo faceste" risorse don Benedetto "per attirare su di voi la benevolenza del Signore". Non l'avesse mai detto. Agli orecchi di quei buoni Cristiani l'ingenua risposta risuonò volutamente provocatoria per cui soltanto l'intervento del notaio valse a salvare il vecchio prete dalla loro legittima ira". In fondo, come osserva Raimondo Giustozzi, in un proprio saggio, i personaggi siloniani "sono uomini d’oggi ma vengono da lontano e vanno lontano. Non restano a casa loro, sono fuggitivi, scampati, gente che si è ribellata. Per loro la tradizione è diventata eredità, ma è ugualmente attiva e presente, anche se rinnegano o credono di rinnegare la spinta d’origine, anche quando in nome di questa spinta, si ribellano contro Dio o contro la Chiesa". Sullo sfondo delle loro parabole biografiche, ancora in Vino e Pane Silone ammette che "non sarebbe la prima volta che il Padre eterno è costretto a nascondersi e assumere pseudonimi”. (... ). Il vecchio Murica in piedi, a capo del tavolo, dava da bere e da mangiare agli uomini attorniati.“È lui – egli disse – che mi ha aiutato a seminare, a sarchiare, a mietere, a trebbiare, a macinare il grano di cui è fatto questo pane. Prendete e mangiate, questo è il suo pane. Altri arrivarono. Il padre versò da bere e disse: “È lui che mi ha aiutato a potare, insolfare, sarchiare, vendemmiare la vigna dalla quale viene questo vino. Bevete, questo è il suo vino".
Francesco Rizza