Escatologia giachimita nel francrscanesimo e nella Divina Commedia. Dalla Sila alla cultura europea.
Aggiornamento: 27 gen 2022

Un rapporto intenso perché legato allo Spirito ed all’interiorità lega la Calabria all’Italia centro settentrionale dell’Umbria e della Toscana, il pensiero di Dante Alighieri, di San Francesco da Assisi e Gioacchino da Fiore: il pensatore e teologo calabrese, primo riformatore dell’Ordine cistercense e “profeta della Spirito Santo” che dai periferici monti della Sila, ad otto secoli dalla morte, continua ad ispirare il pensiero filosofico teologico dell’Europa occidentale. “Trait d’union” fra Gioacchino da Fiore e Dante Alighieri il “Liber figurarum” di Gioacchino da Fiore che giustamente Giuseppe Succurro, presidente del Centro internazionale di studi giaocchimiti definisce “la più importante opera di teologia figurativa dell’alto Medioevo” e “l’espressione più alta della simbologia giacchimita”. I suoi codici furono ritrovati a Reggio Emilia alla vigilia della seconda guerra mondiale. “Ciò che non riusciamo a dire come si conviene con le parole – scriveva lo stesso Gioacchino – possiamo almeno introdurlo tramite le figure esposte”. Capita così che la stessa opera non è una casuale raccolta di figure fra quelle inserite negli scritti di Gioacchino da Fiore, ma molto di più: un supplemento che, con precisione fotografica, racchiude secondo Succurro “le strutture portanti e l’immaginazione caleidoscopica del pensiero del fondatore dell’Ordine florense”. Fra le immagini gioachimite che affiorano nella “Divina Commedia” dantesca, la figura del Veltro liberatore ed innovatore della Chiesa e della società cristiana citato nel primo canto dell’Inferno; il simbolismo di Beatrice descritta nei canti XXI e XXX del purgatorio come un’innovata “Ecclesia spiritualis”; l’enigma dei Cinquecento Dieci e Cinque (DUX) che come fece il personaggio biblico Zorobabel, proprio nel 515 a.C., avrebbe liberato la Chiesa dalla “nuova Babilonia” che affiora nel XXXIII canto del Purgatorio; la visione della “Candida Rosa” in cui , nel XXXI canto del Paradiso è facile riconoscere sia la simmetria e la gerarchia del “Salterio decacorde” che il “Liber figurarum” ed i Cerchi trinitari che, nel trentatreesimo canto della stessa Cantica, descrivono l’ordinamento dello stesso Paradiso. Contemplando la Trinità, Dante così la descrive: “Nella profonda e chiara sussistenza \ dell’alto Lume parvemi tre giri \ di tre colori e d’una contenenza;\ e l’un da l’altro, come iri da iri \ parea reflesso, e il terzo parea de foco, \ che quinci e quindi ugualmente si raggiri”. E se fino alla scoperta del “Liber Figurarum” di gli studiosi dell’Alighieri ritenevano che tali giri potessero essere visti con gli occhi della fede mentre la geometria non li avrebbe mai visti; dopo la scoperta dei codici di Reggio Emilia fu facile immaginare che gli occhi umani del Vate fiorentino avevano visto gli stessi cerchi nell’ undicesima immagine del “Liber figurarum”. La stessa immagine che sintetizza le tre età a base del pensiero teologico gioachimita, è così descritta dal Teologo calabrese nella “Expositio In Apocalypsim” così scrive: “trea in ea colores esse perpendimus: unum viridem, alium caerrulum, tertium rubicondum”. Secondo gli storici, lo scenario dell’incontro ideale fra il giovane studente Dante Alighieri ed il pensiero di Gioacchino da Fiore avvenne nel convento fiorentino di Santa Croce. Colui che sarebbe divenuto il Vate per antonomasia si formò in quel convento che ospitava uno dei più importanti luoghi della formazione francescana. Negli anni degli studi danteschi, la cattedra di teologia era affidata a Pietro di Giovanni Olivi. Proprio questo colto francescano francese, in una delle proprie opere, la “Lectura super Apocalypsim” aveva rilanciato il sogno gioachimita della Terza età della storia, quella dedicata allo Spirito Santo. Secondo frate Pietro Olivi, proprio l’Ordine francescano rappresentava il momento più alto della storia ecclesiastica e quindi come quella purezza destinata a redimere quella “Ecclesia spiritualis” che Gioacchino contrapponeva alla “Ecclesia carnalis”.Nello stesso convento francescano, un altro teologo gioachimita conosciuto da Dante fu Umbertino da Casale che con i propri scritti ispirò una lettura apodittica della storia della Chiesa ispirata al pensiero di Gioacchino secondo cui sarebbe presto arrivato un “papa Angelico” che avrebbe guidato il Cristianesimo. E l’attesa dell’età dello Spirito che sarebbe stata caratterizzata da una pacificazione generale presente sia nei sogni di numerosi Francescani, particolarmente nella corrente degli Spirituali. Effettivamente, un positivo rapporto fra la teologia di Gioacchino andò a crescere proprio con la “minoranza” francescana degli Spirituali che, dopo l’elezione a superiore di frate Elia da Cortona, non accettarono l’uniformarsi dell’Ordine francescano alle altre comunità religiose, preferendo ad ogni compromesso con la proprietà nell’esigenza di una maggiore spiritualità. A ben vedere, sia san Francesco d’Assisi che Gioacchino da Fiore immaginavano una società cristiana in cui gli eletti non fossero coloro che “abbandonano il secolo” ma anche coloro che, rimanendovi, ne accettassero uno stadio sovrannaturale mediante l’adesione al “terzo ordine”. Mentre nel progetto di Gioacchino c’era una comunione dei beni monastici per annullare il concetto della proprietà, per i propri frati Francesco d’Assisi scelse la dote della “povertà evangelica”. Entrambi, inoltre, furono contrari alle Crociate. A dividere il pensiero dei due il fatto che il Frate assisiate non sentiva vicino quella “fine dei tempi” che era uno dei fondamentali dell’escatologia del Teologo calabrese.
Francesco Rizza