C'era una volta la So.Fo.Me. (seconda puntata).

Le cose nei cantieri peggiorarono nel secondo dopoguerra. Poniamo pure che si avesse a smantellare la So.Fo.Me.: perché le Amministrazioni non hanno utilizzate le infrastrutture – la ferrovia decauville, cioè a scartamento ridotto, la teleferica – e i luoghi che queste attraversavano o costeggiavano o usavano per momentaneo deposito e pulitura dei tronchi? Perché non hanno riconvertito i magnifici immobili, a partire dallo splendido chalet in stile alpino costruito nel 1908 dalla società tedesca-austriaca Rueping sul Gariglione, e quindi poi utilizzato dalla So.Fo.Me., realizzato per ospitarvi le maestranze durante i tagli (e oggi neanche più “caserma della Forestale”), o la bella costruzione in legno, casa magazzino spaccio alimentare per gli operai e le famiglie, in località Giardino (un luogo incantato, che sembra, appunto, il Giardino delle fate) ? Niente: tra la fine degli anni ’40 e i primi anni degli anni ’50 ogni attività imprenditoriale e di valorizzazione del territorio venne negata e ogni iniziativa, come quella cooperativa, assolutamente necessaria tra i piccoli, e gli sparuti grandi, produttori di attività agricole e boschive, come l’utilizzazione del castagno, non fu presa neanche in considerazione. Furono persino lasciati smantellare spensieratamente, anzi plaudendo, i grandi e secolari vitigni dell’ “Arvino” (Ervino), dello Zibibbo e Malvasia nostrani, all’epoca del taglio dei vigneti promosso dalla Comunità europea per far vincere la concorrenza di mercato agli Stati centrali dell’Europa e ai cosiddetti grandi vitigni del centro-nord della Penisola. Troppo piccoli gli appezzamenti per resistere a quell’ “invito” europeo e … petilin-politico. Come documentava e riconosceva Fausto Chiesa sul Corriere della sera del 1 agosto 2018, «Non è la prima volta che Bruxelles dà incentivi all'estirpazione [tante Leggi, infatti, risalgono al 1999, articolo 8 del regolamento CE n. 1493/99, per esempio, altre al 2008, ecc., n.d.r.], ma è la prima volta che obbliga gli Stati membri a predisporre le misure. […] La nuova riforma entra in vigore il 1° agosto. E prevede generosi finanziamenti per chi vorrà estirpare: oltre un miliardo di euro di premi che Bruxelles ha complessivamente stanziato per eliminare 175 mila ettari di vigneti nel triennio 2009-2011. […] Le Regioni che hanno presentato l'elenco - fa sapere l'Agea - sono sei: Abruzzo, Campania, Lombardia, Sicilia, Provincia autonoma di Trento e la Calabria ». Uno solo, a nostra memoria, ha tentato di resistere, accorpando qualche piccolo vigneto e procedendo all’imbottigliamento del vino per venderlo sul mercato; ma alla fine ha dovuto desistere per la totale assenza di promozione e incentivi da parte del Comune e della Provincia.
Non sarebbe il caso di riprovarci, promuovendo, accorpando e incentivando le poche vigne rimaste e reimpiantando il vitigno originario su altri terreni disponibili? Non ci soffermiamo. Chi, infatti, non conosce i luoghi attraversati dai Fiumi Tacina e Soleo, dagli scenari più belli d’Italia e i cui pianori che li circondano richiamano alla mente i paesaggi alpini (e sulle Alpi sì che li sanno valorizzare i loro luoghi!). Chi non conosce la località Principe e il suo circondario? I petilini magari neanche ci fanno più caso perché abituati ormai da decenni a tali luoghi e panorami e perché interessati piuttosto a trovar funghi; tuttavia, percorrendo fino in fondo la stradella che costeggia la Macchia i l’Arpa (posto dal fascino prodigioso), non si può non restare sbalorditi di fronte alle vallate incontaminate e ricche di sorgenti fluviali. Eppure … Chi non ricorda che una volta un politico del comprensorio petilino rivelò che a una Società che avrebbe voluto costruire un importante villaggio turistico, compresa una sciovia tra Principe e Differenze, fu risposto dagli amministratori dell’epoca che la località non era a disposizione dei ricchi sfruttatori? Lo sfruttamento del legname però continuò “privatamente”, consegnando (proprio così, consegnando, letteralmente, e pressoché senza controlli) il taglio degli alberi a privati del comprensorio. I quali poi vendevano i tronchi a società extraregionali. Chi non ricorda, al proposito, il via vai di Tir sulle strade del circondario per l’occasione? E la possibilità, sia pur minima, di lavoro, fu “inventata” attraverso l’edilizia, attività che si trasformò in un fiato in uno dei più orrendi sacchi edilizi d’Italia (qualche anziano potrà senz’altro raccontare che una volta il nuovo Segretario comunale, appena arrivò all’altezza della strada dove insiste l’attuale palazzo “Donnici” e chiese del come mai di tutti quei palazzoni in costruzione, ma non ultimati come se fossero dei ciclopi senza neanche l’occhio, fece subitanea inversione con l’auto e se ne scappò a gambe, pardon: ‘a ruote levate’). Fu sconvolto e annientato uno dei paesi-presepi, con le sue frazioni, più belli della Penisola (e chi viaggiava per l’Italia in quei tempi potrà confermarlo). E, alla fine, anche l’edilizia dovette però fermarsi e riprese un’emigrazione ancora più selvaggia, persino di alcuni imprenditori edili, delle maestranze e dei pochi artigiani rimasti. Che fare ora? Per rispondere con una qualche possibilità di un fare positivo, dobbiamo ritornare a considerare un po’ della storia passata. Chissà se qualcuno, girovagando sulla vetta del Gariglione e scendendo giù per i boschi verso Petilia Policastro, si è mai soffermato ad osservare il terreno e la sua composizione, o guardando ancora qualche scala rimasta e gli stipiti e le architravi dei portoni di alcuni palazzi del paese, si è mai accorto di lavori con certi marmi e con granito (il marmo bianco leggermente opaco e il granito grigio della Sila)! Quanta ricchezza abbandonata e ormai neanche conosciuta! Tutto il Gariglione, e non solo la vetta, è pieno di lastre di marmo! Persino l’Enciclopedia Treccani ricorda che tutta questa parte della Sila è formata da «rocce cristalline formanti la compagine litologica del rilievo si presentano in formazioni scistose su tutto l'orlo occidentale (filladi, micascisti, scisti granitoidi, gneiss, ecc.) e su gran parte del suo lembo S. (micascisti, gneiss, scisti granatiferi, ecc.), mentre una spessa coltre di rocce granitiche (graniti a mica nera e a elementi cristallini grandi, attraversati spesso da filoni di porfido e da lenti di anfibolite, diorite, ecc.) ne copre tutta la parte centrale, per una vastissima estensione a figura irregolare, scendendo anche sui fianchi N., E. e S. sino a Corigliano, Rossano, Verzino, Cotronei, Cropani e, in masse isolate, sino a Catanzaro e al corso inferiore del fiume Savuto». Dall’Archivio storico di Crotone, dall’Archivio Aldobrandini nella Biblioteca Apostolica Vaticana, dalle ricerche fatte in diversi tempi per trovar miniere nel Regno, secondo i documenti negli Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, si apprende della “Pietra di Policastro”. «Un “lembo” di queste formazioni di gesso si evidenziava anche a Policastro dove, agli inizi del Settecento, lo si usava ancora “assai bene per pietrame da costruzione”, come risulta documentato dalle notizie forniteci dal Mannarino e da quelle che riguardano i lavori compiuti dall’arcivescovo Carlo Berlingieri alla cattedrale di Santa Severina. Il particolare pregio del gesso (“lo ijzzo”) di Policastro, risalta attraverso un atto del 26 febbraio 1641, riguardante alcuni lavori da realizzare all’interno della cattedrale di Crotone. Quel giorno, alla presenza del notaro Protentino di Crotone, si costituivano il mastro Franco Abruzise “de neapoli”, ma “incola Policastri”, da una parte e, dall’altra, i RR. Procuratori della “R. fabricae sacri episcopij Civitatis Crot.s”. In quella occasione, le parti si accordarono affinché il mastro costruisse “le lamie alla ala destra del detto Vescovato novo per diritto alla Cappella della Mad.a SS.a dello Capo e Coprire tutti li Cinque archi novi di lamia de ijzzo”, dietro un compenso di ducati 45 comprensivo di “Mastria e manipoli”, mentre i detti procuratori s’impegnavano a fornire “lo ijzzo petra tonequa e lo legname” per realizzare le centine (“le forme”) e “lacqua”. Si specificava che il mastro avrebbe dovuto fare “a torno a torno” dette lamie, “le Cornici con Relasci a lunettj Come quella di S.to Fran.co di paula” e le cornici come quelle della Cappella del S. Gio: Donisio Suriano “alli Cappoccini”» (Pino Rende, Archivio Storico Crotone). E non basta: «Il ferro in territorio di Policastro – Tracce relative alla presenza di giacimenti di ferro sfruttati anticamente in territorio di Policastro, emergono attraverso l’indagine toponomastica, che evidenzia il permanere del toponimo “Macinello”, in prossimità del corso del fiume Soleo e dei confini silani. Nel 1663, in località “vallone del Maciniello”, nei pressi della Scanzata del Gariglione, fu posto uno dei pilastri che delimitavano il confine silano. La località, invece, non risulta menzionata nella “Carta della Sila disegnata dal tavolario Antonio Galluccio nel 1685” dove, tra quelle denominate “R.e Le Petinelle”, “R.e del Principe” e “M.te Femminamorta”, nella carta dell’Ing. Giorgio de Vincentiis (1889), e “R. le Petinelle”, “R. Principe” e “M. Femminamorta”, nel F.o 237 “S. Giovanni in Fiore” della Carta d’Italia 1:100.000 (1927), troviamo la località “Irto del Ferro”: “55. Timpone del Principe”, “56. Serra della Petinella”, “57. Montagna della Petinella”, “58. Macchia longa”, “59. Serra de Friano”, “60. Montagna de’ Faghi”, “61. Serra della Giumenta”, “62. Timpone di Ariano”, “63. Irto del Ferro”, “64. Strada di Femina morta” e “65. Fontanella di Femina morta”. Discendendo il corso del fiume Soleo, l’attività legata alla produzione del ferro in aree montane più prossime all’abitato di Policastro, è testimoniata dalla presenza dei toponimi “M. S. Barbara” e “Ferro” e/o “del Ferro”. Le antiche concessioni medievali in questa parte montana ricadente nel Castanetum, ed appartenente al territorio di Policastro, sono evidenziate dalla presenza dell’abbazia appartenente alla “Religione Basiliana” di “S. Maria di Cardopiano nelle montagne di Policastro” (Documenti Inediti di Archivi e Biblioteche Calabresi - sec. XII-XVII -, Castrovillari, 2006, pp. 465-470. Fonti Aragonesi II, p. CIL e pp. 101-102. Sisca D., Petilia Policastro. Pino Rende, Archivio Storico Crotone. Domenico Puntillo, Fame Di Sud). La cultura, le convinzioni e le tendenze ambientaliste contemporanee non consentirebbero certo, e forse a ragione, di passare ad uno sfruttamento della “Pietra” come sulle Alpi Apuane e a Carrara, ma niente vieterebbe di seguire con maggior decisione, promozione e investimenti l’esempio del coraggioso giovane che proprio a Foresta ha iniziato da alcuni anni l’attività di lavorazione delle pietre in modo selezionato, ornamentale, elegante e alto e non indifferenziato per costruzioni immobiliari. L’antifascismo, quello corretto, come opposizione e rinnegamento di regime dittatoriale, ci sta, è legittimo, ma non se lo si professa in modo indifferenziato e altrettanto totalitario ad imitazione, magari senza rendersene conto, proprio del regime che si vorrebbe rinnegare. Se si ritiene fosse stato giusto (ma abbiamo cercato di documentare che così non era) sciogliere la convenzione con la So.Fo.Me., perché allora non si sono distrutti, per esempio, il quartiere dell’EUR e i palazzi eleganti e importanti costruiti dal regime, o, qui, la ferrovia Petilia-Crotone? Perché non si sono ripristinate le Paludi pontine e qui, immediatamente, le Casse Comunali di Credito Agrario e a mettere in prigione i presidenti di queste (a suo tempo, dal 1940, a Petilia era retta dall’avv. Egidio Caruso), o eliminare, per esempio, il campo sportivo “fascista” e le ristrutturazioni dei locali di Largo Santa Caterina? Perché non eliminare, come documenta, a voler tralasciare altri, lo studioso Michele Giovanni Bontempo, giurista cattolico e funzionario del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in Lo Stato sociale nel Ventennio, il fascistissimo Welfare (appunto: Stato sociale)? E cioè l’INAM – Istituto Nazionale Assistenza Malattie – , l’IRI, per la promozione industriale, dopo lo sfascio della I Guerra mondiale; l’Opera maternità e infanzia, l’Assistenza ospedaliera per i poveri; la fissazione dell’orario di lavoro e l’ampia tutela per le donne (di questi anni il divieto di licenziamento per le gestanti) e i bambini; la prima normazione relativa all’igiene ed alla salubrità delle fabbriche; il divieto di licenziamento senza giustificato motivo o senza giusta causa e gli istituti che garantiscono e regolano non solo la pensione (l’antica INPS, divenuta nel 1993 CNAS, Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale); ma anche le assicurazioni di invalidità, vecchiaia e disoccupazione: oggi INAIL e sempre CIG dal 1927, cioè Cassa Integrazione Guadagni. Bontempo ricorda, poi, come sia proprio di questi anni l’introduzione degli assegni per gli operai con famiglia numerosa e l’istituzione di strutture il cui fine è quello di assistere i poveri e quelli che oggi chiameremmo “diversamente abili”. Nel Ventennio, spiega Bontempo, la conservazione del posto di lavoro era garantita e favorita da continui corsi professionali che avevano lo scopo di aggiornare il lavoratori. Alcuni di questi Enti avevano succursali anche a Petilia Policastro fino a pochi decenni fa; ma sono state smantellate ed è stato consentito di trasferirle in altri e vicini paesi, più “vicini” all’ideologia dominante così cara a tanti amministratori policastresi. Il sospetto, purtroppo legittimo, è che la cosa che effettivamente interessasse fosse l’eliminazione dell’imprenditoria privata.
Luigi Capozza